Il Direttore della CIA William Casey, fervente cattolico, con «la casa piena di statue della Madonna», andò a trovare per la prima volta Giovanni Paolo II il 23 aprile 1981. Ronald Reagan era Presidente degli Stati Uniti d’America da pochi mesi. Il capo dell’Intelligence USA portava con sé materiale fotografico scattato dai satelliti statunitensi, compresa la foto della moltitudine immensa che aveva circondato il Pontefice polacco mentre parlava a Varsavia, nella piazza della Vittoria, nel suo primo viaggio da Papa nella sua terra madre.

Casey incontrò Papa Wojtyla almeno 6 volte. Tra il 1981 e il 1988, anche Vernon Walters (vice-direttore della CIA dal ’72 al’76) fu ricevuto da Giovanni Paolo II con cadenza più o meno semestrale. In quel periodo – come hanno raccontato Carl Bernstein e Marco Politi nel loro libro Sua Santità (1996), al pontificato fu garantito un «accesso senza precedenti» alle informazioni e al materiale raccolto dalla CIA, comprese le immagini satellitari che riprendevano la disposizione di armamenti intorno alla Polonia. A quel tempo – hanno ricostruito i due autori – la politica dell’Amministrazione USA volta a innescare processi di dissoluzione del blocco comunista sottoposto all’Unione Sovietica attribuiva importanza cruciale al potenziale ruolo del Papa venuto dall’Est.

Niente di simile sembra essere accaduto prima dell’invasione dell’Ucraina ordinata da Putin. Negli anni in cui Papa Francesco, magari applaudito da intellettuali e media, lanciava l’allarme sulla “guerra a pezzi” già cominciata e richiamava le responsabilità del traffico d’armi nell’esplosione dei conflitti, nessuno è andato a consultarsi con lui per chiedergli un parere sull’espansione della NATO a Est, avanzata anche negli anni del suo Pontificato (con il Montenegro cooptato nel 2017 e la Macedonia del Nord in fase di adesione). Prima dell’abisso ucraino, che si va riempiendo del sangue degli innocenti, le informazioni raccolte dagli apparati d’intelligence militari sugli spostamenti delle forze armate venivano rese pubbliche a beneficio dei telegiornali per allertare le masse di utenti iper-connessi. Non si ha notizia di nessun alto rappresentante politico russo, ucraino o di qualche influente nazione d’Occidente che abbia visitato il Papa per esporgli informazioni e concordare strategie prima e dopo l’inizio delle operazioni militari. È stato lui a uscire dal Vaticano e a recarsi alla sede diplomatica russa presso la Santa Sede, per incontrare l’ambasciatore russo Aleksandr Avdeev ( Mentre non si è capito se nella conversazione telefonica tra il Papa e il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky la chiamata sia partita daRoma o da Kiev).

L’impatto della autorevolezza diplomatica vaticana nel determinare assetti e pilotare processi di ordine geopolitico è un dato talvolta enfatizzato da attori globali e regionali a cui tale sopravvalutazione torna utile nel perseguire i propri obiettivi e interessi pro tempore. A volte, anche nel caso dei Papi, conti davvero se qualcuno decide di farti contare.

Dopo l’invasione russa, Papa Francesco ha detto che farà «tutto il possibile» per fermare la guerra. Anche il cardinale Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha offerto la disponibilità della Santa Sede a «facilitare il dialogo con la Russia». Ma il ruolo dei mediatori dipende sempre dallo spazio di manovra che viene loro concesso dalle parti in conflitto. E la Santa Sede non ha alcuno strumento di pressione per imporre per forza propria il proprio ruolo di mediazione. Un ruolo esercitato in altre crisi e contese internazionali, talvolta con buoni effetti, altre volte senza esito (basta ricordare i viaggi del cardinale Roger Etchegaray da Saddam Hussein e del cardinale Pio Laghi dal Presidente USA George W. Bush per scongiurare la campagna militare contro l’Iraq del 2003. Il leader USA – raccontò poi in un’intervista Laghi – non voleva ascoltare, ma solo «comunicarmi il suo messaggio sulla necessità della “guerra preventiva”, conseguenza della teoria dei “pericoli incombenti”»). Quando i risultati buoni sono arrivati, ciò è avvenuto sempre un po’ per miracolo, un po’ per l’attitudine dei diplomatici vaticani e dei Papi a lavorare con umiltà, senza il peso di dover tutelare il prestigio della propria immagine. E senza mai dimenticare o occultare la propria inermità evangelica, militarmente irrilevante.

Detto questo, se per Papa Francesco si aprissero varchi per provare a fermare la guerra fratricida in Ucraina, il Vescovo di Roma e i suoi collaboratori agirebbero opportune et importune, senza rispetto umano, senza il fardello di dover difendere la propria reputazione da prevedibili fallimenti. E una tale possibilità rimane idealmente aperta proprio perché, nei rapporti con la Russia, la sua Chiesa e il suo potere, il Successore di Pietro ha confutato con atti concreti l’equivoco che liquida la Chiesa cattolica come corollario spiritual-religioso dell’Occidente nord-atlantico.

Papa Francesco ha ricevuto tre volte Vladimir Putin in Vaticano (è lui, dopo Angela Merkel, il leader politico mondiale che ha avuto più incontri con il Papa argentino). Nel settembre 2013, a meno di sei mesi dall’inizio del suo Pontificato, Papa Bergoglio ha indirizzato a Putin la lettera ai leader del G20 convocati a Pietroburgo in cui implorava i potenti del mondo di non iniziare un massiccio intervento militare in Siria, allora minacciato dagli USA di Barack Obama.

La diplomazia vaticana, negli ultimi anni, ha sempre trattato la Russia come un attore globale non emarginabile nella ricerca di soluzioni per risolvere le crisi regionali, e non ha mai manifestato consenso o comprensione per gli appelli dei circuiti di potere occidentali che ben prima del Covid alzavano cordoni sanitari politico-diplomatici per isolare la nazione di Putin. Anche di fronte alla guerra del Donbass, iniziata nel 2014 dopo che le regioni secessioniste dell’Ucraina orientale avevano proclamato la loro indipendenza col sostegno russo, mentre crescevano tensione e reciproche accuse tra Russia e Paesi occidentali, le parole del Papa e della diplomazia vaticana non sono finite intrappolate nella meccanica dei blocchi contrapposti. «Papa Francesco e la Segreteria di Stato» disse il Patriarca di Mosca Kirill nell’aprile 2015 «hanno preso una posizione autorevole sulla situazione in Ucraina, evitando affermazioni unilaterali e invocando la fine della guerra fratricida». E quando le convulsioni ucraine hanno fatto esplodere le lacerazioni in seno all’Ortodossia, provocando la frattura tra Patriarcato di Mosca e Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, Papa Francesco – che chiama fratello il Patriarca ecumenico Bartolomeo – non ha voluto in alcun modo esercitare ingerenze nei travagli che tormentano i fratelli ortodossi. «Il Papa e la Santa Sede comprendono l’intera situazione e quanto sia difficile. Non c’è stato un solo commento da parte della Chiesa cattolica romana che abbia interferito o contribuito a rendere la situazione peggiore di quella che è. E siamo grati per questo» ha dichiarato a Vatican Insider Vladimir Legoyda, responsabile del dipartimento società e rapporti con i media della Chiesa ortodossa russa.

Cosa può fare il Papa, ora che si spara e si uccide? Forse nient’altro che pregare il Signore, implorando il miracolo di abbreviare il dolore dei poveri, di far finire l’eccidio. Ma se potrà/potesse fare qualcosa sul piano politico diplomatico, ciò sarà/sarebbe possibile proprio perché i leader russi sanno che lui non è un mediatore di parte, un agente camuffato dell’Occidente, con cui loro sono entrati in apocalittica rotta di collisione.

Proprio i tratti apocalittici dello scenario aperto dall’invasione russa in Ucraina fanno apparire ancora più grottesche le paturnie di chi, in tale circostanza, ha il problema di tirare le orecchie al Papa e al Vaticano per aver “sbagliato strategia” nei rapporti con la Russia, o per non essersi ancora allineati al linguaggio delle cancellerie e dei media occidentali contro Putin “il sanguinario”, il “matto”, lo “psicopatico”, anima nera dei nuovi “Stati canaglia” e dei nuovi “Assi del Male”. Come se il problema del Papa fosse di dover dire via twitter “da che parte sta”, o strappare qualche applauso con qualche anatema sdegnato un tanto al chilo. Come se non fosse chiaro che la croce che lui porta al collo ha a che fare col mistero di tutti gli innocenti che soffrono e muoiono nei mattatoi della storia.