De mortuis nihil nisi bonum. Di chi è morto si dica solo il bene. Ora che ci ha lasciato, in tanti riconoscono la grandezza di Mikhail Gorbaciov (1931-2022), e rendono omaggio postumo a colui che fu l’ultimo Presidente dell’Unione Sovietica. Le mille sirene della propaganda occidentalista approfittano anche della sua morte per spargere su social e giornali un altro po’ di veleno contro i russi, accusati in massa di aver quasi cancellato il loro illustre connazionale dalla memoria collettiva, non riservandogli alcun onore come Padre della Patria, o addirittura svillaneggiandolo come complice del collasso dell’ultimo Impero guidato da Mosca.

Quando Gorbaciov era nel pieno della sua battaglia per la perestrojka (riforma sociale del sistema sovietico dall’interno), che sarebbe culminata nel putsch dell’agosto 1991 – il drammatico e patetico colpo di Stato fallito, tentato dei settori più rigidi della nomenclatura sovietica, che per eterogenesi dei fini rafforzò Boris Eltsin e la sua banda di liquidatori dell’Urss -, i circoli occidentali lo guardavano annaspare. E invece di offrire sponde al suo tentativo di cambiamento graduale del sistema, lo affossavano facendo i calcoli su quanto potevano guadagnare dal suo fallimento. Di lì a poco, tutto il Capitale occidentale e le istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca Mondiale, Banca europea di ricostruzione e sviluppo) avrebbero steso tappeti rossi all’affossatore Eltsin (tenace affossatore di Gorbaciov, feroce nel denigrare anche pubblicamente il suo antagonista) e al suo mix di ultra-nazionalismo russo alcolico e ultra-liberismo disegnato dai cervelli dei suoi “Chicago-Boys” leningradesi.

Qualche anno dopo Giulio Andreotti, nella veste di direttore della rivista 30Giorni, nelle riunioni di redazione (a cui era presente anche chi scrive) raccontava ai suoi collaboratori i summit in cui leader occidentali facevano a gara a umiliare Gorbaciov. Il Presidente dell’Urss chiedeca tempo e comprensione, li invitava a non tirare la corda, e tra loro c’era chi lo sbertucciava, domandandogli cosa aspettasse a far sbarcare sulla Piazza Rossa gli hamburger di McDonald’s e tutti gli altri marchi-simbolo del trionfante capitalismo occidentale.

Passò ancora qualche anno, e proprio la rivista 30Giorni, grazie agli studi agostiniani e al genio cristiano di don Giacomo Tantardini, pubblicò alcuni brani di San’Agostino che parevano illuminare con realismo e efficacia anche quello che era accaduto a Gorbaciov e in tutto il mondo nel passaggio di potere consumatosi intorno al 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, evento simbolo del crollo del blocco comunista a guida sovietica che aveva dominato l’Europa orientale durante la Guerra Fredda.

Agostino si riferiva – ovviamente – alla vicenda storica di Roma e alla crisi del suo Impero. Raccontando quella storia, il suo realismo cristiano coglieva con lungimiranza carica di suggestioni come andavano e come vanno le cose del mondo.

I Romani – ricordava il Santo di Ippona – avevano imposto le loro leggi «con grandi stragi di guerra». A volte, come nel caso della distruzione di Alba Longa, avrebbero potuto raggiungere i loro scopi in maniera ancor più efficace percorrendo la via graduale e paziente del compromesso o delle soluzioni concordate. La pace e la tranquillitas ordinis si sarebbero potute ottenere in maniera meno sanguinosa. Ma in quella maniera, «non ci sarebbe stata nessuna gloria per i trionfatori» («Quod si concorditer fieret, id ipsum fieret meliore successu; sed nulla esset gloria triumphantium», De civitate Dei 5, 17). Non ci sarebbe stata apoteosi per chi voleva essere esaltato e celebrato per aver distrutto il nemico. In maniera analoga – si notava allora su 30Giorni – se il passaggio dal comunismo a forme di gestione del potere più simili alle democrazie liberali fosse avvenuto gradualmente, per progressiva transizione, o attraverso un compromesso concordato, si sarebbero ridotte sofferenze, stragi e fatiche vissute nei decenni successivi da interi popoli. Ma non ci sarebbe stata la glorificazione di chi voleva e poteva vantarsi di aver abbattuto il comunismo. Per questo bisognava umiliare il nemico, e nel contempo rivestire di aura messianica l’epopea da “primavera dei popoli” dell’Ottantanove.

«Le nostre prime mura grondarono di sangue fraterno». Così Agostino, citando il poeta Lucano, ricorda il fratricidio di Remo da parte di Romolo che segna l’inizio della storia di Roma. Il realismo cristiano del grande Padre della Chiesa d’Occidente libera il campo da veli ingannatori e idealizzazioni menzognere. Prende atto che la lotta per il potere è di fatto inevitabile, riconoscendo anche che «Questa volontà di potere agita con grandi mali e distrugge il genere umano» («Libido ista dominandi magnis malis agitat et conterit humanum genus»). L’esperienza di appartenere a “un’altra Città” può aiutare i cristiani anche a riconoscere le violenze e corruzioni connesse potenzialmente con ogni potere, soprattutto con i poteri che più provano a ammantarsi con le maschere dell’idealismo spiritual-eticista.

Nel frangente storico del post-Ottantanove, la riscoperta del realismo cristiano di Agostino forniva antidoti potenti e attualissimi anche alle propagande empie che puntavano a attribuire a fatti mondani – ad esempio il cambio degli assetti e delle modalità di esercizio del potere nell’Europa dell’Est – una valenza salvifica. Era e rimane legittimo giudicare la democrazia come strumento migliore per regolare la convivenza politica e sociale. Ma si sconfina fatalmente nell’empietà quando si attribuisce a tale strumento il potere di rendere felici, e si iniziano a giustificare le guerre con motivi ideali e “umanitari”.

Il passaggio di potere dell’Ottantanove fu rivestito di immagini religiose e di aspettative salvifiche. Di fatto, nel nuovo mondo post- Ottantanove, si allargarono gli spazi anche per i commerci della droga e delle armi.

Trent’anni dopo, nei mali del presente si riaffacciano tutte le imposture e le manipolazioni che affollavano la scena del post-Ottantanove. Con maschere più cupe, feroci e spudorate di quelle che allora. La sciagurata offensiva militare di Putin appare gonfia di rancori e risentimenti covati in un popolo che nei piani degli Déi nordatlantici non si sarebbe mai più dovuto risollevare dal suo destino fatale e eterno di sconfitta e umiliazione. Il messianismo sacrilego si esprime nei toni rozzi e demodè di chi spruzza acqua santa sulle armi da una parte e dall’altra nel conflitto. Ma rivela il suo volto più infernale nelle mosse dei circoli iniziatici che ormai non trattengono più la loro foga di smerciare interi arsenali di armi “umanitarie” e di dire al mondo che è venuto il tempo di “accelerare l’Apocalisse” (qualche giorno fa Lizz Truss, accreditata come prossimo premier britannico, ha dichiarato che nel contrasto con la Russia sarebbe pronta «a usare le armi nucleari, anche se ciò significa l’annientamento globale»).

Più di trent’anni fa, il tentativo disperato di Gorbaciov trovò una purtroppo effimera sponda di simpatia in un Papa polacco, che anche per quella sua apertura lungimirante fu accompagnato dal rispetto non disinteressato dei poteri del mondo, a partire da circoli e lobby del potere d’Occidente.

Oggi, un altro Papa viene preso a sprangate da ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, alti Prelati e leader nazionali perché ha usato parole di pietà cristiana per una ragazza russa, figlia di un marginale ideologo esoterista, fatta saltare in aria in un attentato terrorista nel conflitto da tempi ultimi apertosi nel cuore dell’Europa. Anche questi sono segni dei tempi.