Il 24 maggio di ogni anno, ormai da 15 anni, comunità cattoliche di tutto il mondo pregano per i fratelli e le sorelle della Chiesa che è in Cina. Accade nel giorno in cui si celebra la memoria liturgica della Beata Vergine Maria “Aiuto dei cristiani”, venerata con quel titolo nel Santuario nazionale di Nostra Signora di Sheshan, presso Shanghai.

A istituire la giornata di preghiera per la Chiesa che è in Cina è stato Papa Benedetto XVI, nella Lettera da lui indirizzata ai cattolici cinesi nel 2007. Un’iniziativa che rivela anche l’affinità elettiva con cui il Papa-teologo ha incontrato e abbracciato l’avventura vissuta dai cattolici nella Repubblica popolare cinese, riconoscendone l’intima consonanza con il cuore pulsante del mistero della Chiesa.

La sloganistica dominante relativa alle relazioni tra Cina popolare e Chiesa cattolica si ostina a attribuire a Papa Francesco presunte svolte e cambi di passo nell’approccio vaticano alla “questione cinese”. In realtà, un contributo decisivo e dirimente per chiarire lo sguardo dei Palazzi vaticani e orientare le scelte della Santa Sede sulla vicende tribolate della cattolicità cinese è arrivato proprio da Joseph Ratzinger, già prima della sua elezione a Vescovo di Roma.

Nei primi anni Ottanta, quando Ratzinger era da poco sbarcato a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, fu proprio l’allora cardinale bavarese a pilotare l’iniziativa più rilevante e carica di conseguenze realizzata dalla Santa Sede in merito alla condizione della Chiesa cattolica in Cina.

Erano anni intensi e per molti versi confusi. Il popolo cinese archiviava lentamente i traumi della Rivoluzione Culturale, Deng Xiaoping proseguiva nella politica di “riapertura” economica al mondo, e nei Palazzi vaticani mancavano spesso informazioni e coordinate per decifrare quello che stava davvero accadendo ai cattolici cinesi, dopo gli anni della persecuzione più cruenta. Da esponenti delle comunità cosiddette clandestine arrivavano a Roma anche denunce di chi sosteneva che le ordinazioni di vescovi cinesi celebrate sotto il controllo degli apparati politici e senza il consenso del Papa erano da considerarsi non solo illegittime, ma addirittura invalide. Una eventualità che, se confermata, avrebbe tolto ogni valore a gran parte dei sacramenti e delle messe celebrati dai falsi vescovi cattolici, a cominciare dalle ordinazioni sacerdotali da loro conferite ai nuovi preti chiamati a far ripartire la vita delle parrocchie in tutto il Paese.

Per verificare la fondatezza di accuse e sospetti, il Dicastero dottrinale vaticano guidato da Ratzinger realizzò uno studio di approfondimento durato due anni, che si concluse nel 1985 e affermò che le ordinazioni episcopali avvenute in Cina senza consenso del Papa erano comunque da considerarsi valide. Lo studio prese atto che i riti di consacrazione erano stati manipolati su pressione degli apparati politici, ma riconobbe che nonostante tali omissioni e altre alterazioni, erano state comunque rispettate le condizioni minimali, formali e materiali, cioè i gesti e le formule di consacrazione richiesti per garantire la validità sacramentale di un’ordinazione episcopale.

Fu proprio lo studio di approfondimento dottrinale realizzato sotto la supervisione di Joseph Ratzinger a favorire la larga disponibilità della Santa Sede a accogliere la gran parte delle richieste dei vescovi ordinati senza mandato pontificio che in quegli anni facevano pervenire al Papa le loro richieste di veder legittimata dalla Santa Sede la loro illegittima ordinazione episcopale.

Il pronunciamento sottoscritto da Ratzinger come Prefetto dell’ex Sant’Uffizio circa la validità delle ordinazioni episcopali cinesi illegittime è a livello dogmatico, dottrinale, teologico e pastorale l’atto ecclesiale più vincolante e carico di conseguenze espresso dalla Santa Sede in merito alle sofferte vicende della cattolicità nella Cina comunista. E’ quello il punto di svolta, il riconoscimento che indica la direzione da imboccare e fa da bussola nei tratti di cammino più impervi, quando gli incidenti di percorso fanno perdere l’orientamento. Una volta che si è riconosciuta la natura cattolica dell’esperienza ecclesiale cinese, e si è preso atto che  le ordinazioni episcopali illegittime si erano verificate solo a causa delle pressioni degli apparati politici e non nascondevano in sé alcun disegno di creare una Chiesa diversa da quella cattolica, allora la rotta appare segnata, al di là di ogni interferenza, al netto di ambiguità e confusioni alimentate dai tanti fatti enigmatici e laceranti che punteggiano il cammino della Chiesa cattolica nella Cina comunista. Da quel momento, l’intento primario della Santa Sede diventa quello di non abbandonare al suo destino la Chiesa cattolica che vive nel contesto politico e culturale cinese. Anche la scelta della Sede apostolica di verificare gli spazi per un’intesa con le autorità civili cinesi sulla questione delle nomine dei vescovi risponde all’esigenza prevalente di contribuire a custodire la natura apostolica e sacramentale della Chiesa che è in Cina, e così garantire che nel futuro la legittimità delle ordinazioni dei vescovi cattolici cinesi e l’efficacia salvifica dei sacramenti da loro amministrati non vengano più offuscate, nemmeno dalle ombre effimere del dubbio e del sospetto. Si tratta di trovare le strade. Ma non c’è più incertezza sulla direzione da prendere, e sulla meta del cammino.

Lo studio dottrinale compiuto nella prima metà degli anni Ottanta diventa a suo modo il criterio ispirativo da cui, pur tra sabotaggi e controversie, si snoda  tutto il percorso compiuto dalla Santa Sede nella gestione del dossier cinese, fino all’accordo provvisorio raggiunto nel 2018 con il governo di Pechino sui meccanismi di selezione e nomina dei nuovi vescovi cattolici cinesi.

Da Papa, Joseph Ratzinger sviluppa e esplicita nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007 gli stessi criteri-guida già contenuti in nuce nel pronunciamento del 1985 sulla validità delle ordinazioni episcopali illegittime cinesi. Quella Lettera rappresenta uno dei vertici del magistero pontificio ratzingeriano, e è il più importante e ampio documento rivolto dalla Sede apostolica alla Chiesa in Cina negli ultimi decenni. Eppure quel testo magisteriale ha avuto fin dall’inizio una ricezione più che contrastata. Con media e personaggi ecclesiastici preoccupati di attutirne la portata, offrendone chiavi di lettura manipolate.

Nella Lettera ai cattolici cinesi, tra le altre cose, Benedetto XVI riafferma che «Nonostante molte e gravi difficoltà, la Chiesa cattolica in Cina, per una particolare grazia dello Spirito Santo, non è stata mai privata del ministero di legittimi Pastori che hanno conservato intatta la successione apostolica». Vuol dire che la fantomatica “Chiesa patriottica” fedele al governo invece che al Papa di Roma di cui giornalisti pigri favoleggiano da decenni in realtà non è mai esistita. Ci sono stati solo due atteggiamenti diversi davanti alla politica religiosa del governo. Alcuni dei vescovi, «non volendo sottostare a un indebito controllo, esercitato sulla vita della Chiesa, e desiderosi di mantenere una piena fedeltà al successore di Pietro e alla dottrina cattolica, si sono visti costretti a farsi consacrare clandestinamente […]. Altri Pastori, invece, sotto la spinta di circostanze particolari, hanno acconsentito di ricevere l’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio ma, in seguito, hanno chiesto di poter essere accolti nella comunione con il successore di Pietro e con gli altri fratelli dell’episcopato». In quella Lettera, il Papa bavarese ricordava anche che «la clandestinità non rientra nella normalità della vita della Chiesa», e auspicava che anche i vescovi cosiddetti “clandestini”, impediti o ostacolati nell’esercizio del loro ministero episcopale dagli apparati politici, potessero essere riconosciuti come legittimi pastori «dalle autorità governative anche per gli effetti civili – in quanto necessari – e che i fedeli tutti possano esprimere liberamente la propria fede nel contesto sociale in cui si trovano a vivere». In quel testo pontificio del 2007 si specificava che anche i pochi vescovi ordinati senza il consenso pontificio e ancora privi della sanatio canonica della loro illegittima ordinazione episcopale, «pur non essendo in comunione con il Papa, esercitano validamente il loro ministero nell’amministrazione dei sacramenti, anche se in modo illegittimo». Nella stessa Lettera  si auspicava anche «un accordo con il governo per risolvere alcune questioni riguardanti la scelta dei candidati all’episcopato» e per adeguare le circoscrizioni e le province ecclesiastiche alle nuove suddivisioni dell’amministrazione civile. Tre anni dopo, nel libro-intervista Luce del mondo, scritto con Peter Seewald e pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, Benedetto XVI, parlando delle vicende della Chiesa in Cina, ribadiva che «il vivo desiderio di essere in unione con il Papa è sempre stato presente nei vescovi ordinati in maniera illegittima. Ciò ha permesso a tutti di percorrere il cammino verso la comunione, lungo il quale sono stati accompagnati dall’opera paziente compiuta con ognuno di loro singolarmente».

Da Papa, Joseph Ratzinger ha voluto la ripresa del dialogo diretto con le autorità di Pechino sulla questione delle ordinazioni episcopali cinesi. Il 26 febbraio 2020 il cardinale Giovanni Battista Re, Decano del Collegio cardinalizio, ha inviato a tutti i porporati del mondo una lettera per confutare sulla base di documenti riservati vaticani le sgangherate affermazioni di chi sosteneva che l’accordo con la Cina sulle nomine dei vescovi cinesi approvato da Papa Francesco nel 2018 era «lo stesso che Papa Benedetto aveva, a suo tempo, rifiutato di firmare». In quella lettera, il cardinal Re ha potuto citare documenti consultati di persona presso l’Archivio Corrente della Segreteria di Stato i quali attestano che «Papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di Accordo sulla nomina dei Vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare». Una attestazione che non sorprende, alla luce del sensus fidei e del sensus Ecclesiae sempre testimoniati da Joseph Ratzinger nel suo approccio alle controverse vicende della cattolicità cinese.

Allo stesso modo, non sorprende nemmeno che i criteri di ordine dogmatico, dottrinale e pastorale seguiti e condivisi da Ratzinger e da Papa Francesco nel loro modo di trattare la condizione della Chiesa in Cina siano sistematicamente rimossi e occultati da chi – preti e vescovi compresi – continua a chiedere l’annullamento dell’accordo Cina-Vaticano del 2018 usando griglie di fattura politica, mondana e clericale. La schiera di sabotatori occidentalisti che non digerisce l’idea di contatti diretti e non mediati tra Cina e Santa Sede, e a pochi mesi dalla sua “scadenza” fissata per il prossimo ottobre si appresta a sferrare un nuovo assalto all’accordo provvisorio. Puntando stavolta su nuove sponde geopolitiche, e confidando nel fatto che i nuovi sponsor di marca “liberal” potrebbero rivelarsi al riguardo più cinici e efficaci di Donald Trump, Steve Bannon e Mike Pompeo.