Appunti di Gianni Valente

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A Gerusalemme l’Ascensione di Cristo si celebra anche in una moschea

Succede soltanto a Gerusalemme: è lì che un giorno all’anno, sulla cima del Monte degli ulivi, si celebrano liturgie eucaristiche in rito romano anche in una moschea. Accade di giovedì, nel giorno in cui la Chiesa di Roma celebra la Solennità liturgica dell’Ascensione del Signore Gesù Cristo.

Il luogo sacro in cui ogni anno si ripete questa tradizione, ennesima singolarità vissuta dai cristiani in Terra Santa, è la piccola Cappella dell’Ascensione, edificio di origine crociata che secondo la tradizione contiene l’ultima impronta terrena di Cristo, prima della sua ascesa al Cielo. Il luogo di culto fu costruito come cappella a pianta ottagonale nel 1152, e nel 1198 fu trasformato in moschea dal Sultano Salah al Din (il Saladino), artefice della riconquista islamica di Gerusalemme. Oggi, la cappella fa ancora parte della cosiddetta Moschea dell’Ascensione, costruita per celebrare l’Ascensione di Gesù, riconosciuto dai musulmani come il Profeta ʿĪsā, figlio di Maria. L’ex luogo di culto cristiano è aperto a visitatori e pellegrini tutto l’anno, e nella festa dell’Ascensione, per concessione speciale di antica tradizione, i Francescani della Custodia di Terra Santa vi celebrano liturgie eucaristiche, a cui prendono parte gruppi di cristiani autoctoni e di pellegrini. Quest’anno, nella giornata di giovedì 26 maggio – riferiscono i media ufficiali del Patriarcato latino di Gerusalemme – davanti all’edicola della cappella dell’Ascensione sono state celebrate una messa in arabo, alle ore 8, e un’altra liturgia eucaristica in latino, alle ore 9,30. In una giornata molto calda, dopo la liturgia i presenti si sono raccolti all’interno della cappella, per contemplare il luogo da cui, secondo la tradizione locale, Gesù è asceso al Padre.

Charles de Foucauld Santo. Confessare Cristo nei deserti del mondo

A vent’anni confessava di vivere «come si può vivere quando l’ultima scintilla di fede si è spenta». morto nel deserto algerino, ammazzato da uno di quegli stessi musulmani tra i quali aveva vissuto al lungo, servendoli gratuitamente, senza aver “guadagnato” nessuno di loro alla Chiesa cattolica. Domenica 15 maggio, a Roma, in piazza San Pietro, la Chiesa cattolica lo ha proclamato santo, insieme a altri 9 beati. Charles de Foucauld (1858-1916), il monaco che da solo costruiva tabernacoli nel deserto per «trasportare» Gesù in mezzo a coloro che non lo conoscevano né lo cercavano, viene offerto al culto universale del popolo di Dio. La sua canonizzazione lo presenta a tutti come un modello di vita e testimonianza cristiana.

Tra le schiere sempre più folte dei canonizzati, de Foucauld sembrerebbe a prima vista appartenere alla categoria dei santi estremi, quelli che presidiano le terre di confine dell’avventura cristiana nel mondo. Nondimeno, la sua storia così irripetibile dona respiro e conforto per tutti. Racconta come si può confessare e annunciare Cristo non solo nel deserto algerino, ma anche nei deserti metropolitani che crescono nel tempo presente, in tutto il mondo.

Charles de Foucauld. rimasto orfano a sei anni, disapprende presto le preghiere imparate nell’infanzia. Da giovane vive una vita da avventuriero, sospesa tra la sua carriera militare e le sue esplorazioni nel nord Africa. Per lui, come per tanti ragazzi del tempo presente, il cristianesimo diventa come «un passato che non lo riguarda» (Joseph Ratzinger). Lo riscopre come un nuovo inizio di grazia, anche grazie alla vicinanza a lui offerta dall’anima cristiana della cugina Marie de Bondy e di Henri Huvelin, che diverrà il suo padre spirituale: «Andavo in chiesa senza credere. Vi passavo lunghe ore a ripetere questa strana preghiera: Dio, se ci sei, fa che io ti conosca». Verrà ordinato sacerdote nel 1901.
Nell’esperienza del giovane Charles, è chiaro fin dall’inizio che il cuore umano può essere mosso, commosso e cambiato non da strategie inventate per rendere “attraente” e “accattivante” il messaggio cristiano, ma solo dall’attrattiva operata dalla grazia stessa di Cristo, che inizia la sua opera e la porta a compimento.

“Dummodo Christus Annuntietur”. Purché Cristo sia annunciato. Il cuore missionario di Papa Luciani

«I missionari sono quelli che tirano il carro della Chiesa. Quelli che tirano il carro sono quelli che chiedono i posti della fatica e del rischio». Così Albino Luciani ripeteva sempre alla sorella Antonia, molti anni prima di essere eletto Papa. Lo raccontò lei stessa in “Mio Fratello Albino”, il volume in cui aveva narrato le memorie della vita familiare di Papa Giovanni Paolo I. Nella testimonianza resa in quel libro – raccolta nel 2003 da Stefania Falasca, vice-postulatrice nella Causa per la canonizzazione di Papa Luciani – , Antonia, poi spentasi nel 2009, aveva anche tratteggiato in pochi cenni l’intima attrattiva percepita dal fratello per l’esperienza dei missionari: «La missione l’Albino l’aveva proprio nel cuore. Tanto che anche quando era Patriarca di Venezia più volte mi confidò il desiderio di andare missionario». A Antonia, detta Nina, Albino raccontava sempre che «Uno dei suoi santi preferiti era Francesco Saverio». E le confidava di quanto fosse rimasto colpito dalla scelta di Paul-Émile Léger, il cardinale sulpiziano che nel 1967 aveva lasciato la guida dell’Arcidiocesi canadese di Montréal per trasferirsi in Camerun e lavorare al servizio dei bambini disabili.
Albino Luciani sarà proclamato beato a Roma, il prossimo 4 settembre. In vista della beatificazione, la Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I – istituita da Papa Francesco nel 2020 con l’obiettivo di custodire il patrimonio degli scritti e promuovere la conoscenza degli insegnamenti del suo predecessore – ha promosso una Giornata di studi interamente dedicata al Magistero di Papa Luciani, dal titolo: “I sei «vogliamo». Il Magistero di Giovanni Paolo I alla luce delle carte d’archivio”. L’evento avrà luogo venerdì 13 maggio a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana. I lavori del Convegno di Studi saranno aperti dal Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, Presidente della Fondazione Giovanni Paolo I, e saranno coordinati da Stefania Falasca, Vicepresidente della stessa Fondazione vaticana.
La giornata di studi, realizzati alla luce della documentazione dell’Archivio Privato Albino Luciani – oggi patrimonio della Fondazione vaticana – offrirà l’occasione di cogliere anche l’apertura missionaria percepibile nel sensus Ecclesiae di Giovanni Paolo I, a partire dai sei «vogliamo» del messaggio Urbi et orbi pronunciato da papa Luciani l’indomani della sua elezione, il 27 agosto 1978.
Il pontificato di Albino Luciani è durato solo 33 giorni. L’intensità del suo “sentire” missionario non ha avuto il tempo di ispirare atti e mostrare priorità da perseguire durante il suo breve ministero come Vescovo di Roma. Prima dell’elezione pontificia, la sua vita e la sua vocazione ecclesiale si sono svolte per lo più entro i confini del Veneto. Tratti esistenziali e dati biografici che per paradosso rendono ancor più esemplare e carica di suggestioni per il presente la sua sollecitudine per la dinamica missionaria della Chiesa.

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