Papa Francesco ha compiuto 85 anni. E la cifra importante dell’età da lui raggiunta rilancia il gioco tristo, in realtà già iniziato da tempo, dei “bilanci” del suo pontificato.

Chi gioca a questo gioco, spesso, trucca le carte. Lo favorisce lo spappolamento e la continua erosione della memoria collettiva – sui tempi lunghi e ormai anche su quelli brevi – che è uno degli effetti del flusso di comunicazione digitale no-stop in cui viviamo immersi.

Papa Bergoglio ha fatto firmare l’accordo con la Cina sulle nomine dei vescovi cinesi. Ha proclamato Santo il Vescovo martire Oscar Arnulfo Romero, la cui causa di canonizzazione era stata bloccata sine die per i sabotaggi di matrice politica messi in atto da alcuni cardinali. Lui ha attestato ogni giorno nel suo magistero la predilezione di Cristo per i poveri, che in contesti legati a precedenti stagioni ecclesiali era stata parzialmente occultata per ragioni anch’esse politiche.

Papa Bergoglio ha trovato nelle parole della fratellanza un lessico di comprensione e convivenza con i figli dell’islam, in una fase storica in cui tutto cospirava a ammantare di linguaggi religiosi le strategie di annientamento militare dei nemici.

Con le omelie di Santa Marta, col Giubileo della Misericordia e con tanti altri gesti, il Papa regnante ha ridetto al mondo che il confessionale è un luogo di liberazione e non di tortura psicologica, e i sacramenti sono i gesti con cui il Signore dona la sua grazia «libera, bastevole, necessaria per noi» (Paolo VI).

Basterebbero solo alcune tra le innumerevoli cose dette e fatte da Papa Francesco, per ringraziare il Signore di ciò che è già accaduto nel tempo del suo pontificato, anche in prospettiva storica.

Eppure, se si guarda a fatti e dinamiche ecclesiali registrate in tempo reale dalla cronaca mediatica, si deve riconoscere per forza di cose che sì, il Papa ha fallito.

La formula della “Chiesa in uscita” è diventato un mantra del linguaggio ecclesialese, eppure nomenclature e apparati ecclesiali appaiono come non mai avvitati su se stessi, congestionati nelle proprie lacerazioni e convulsioni interne. Tutti in preda a fenomeni di auto-eccitazione per i processi di redistribuzione di carichi e quote dello scalcagnato “potere” clericale. Nelle consorterie interne dilagano manifestazioni parossistiche di carrierismo, esibizionismo, stati di auto-promozione mediatica permanente da parte di soggetti singoli e organizzati in preda a bulimie presenzialiste e deliri d’onnipotenza: intanto, come sottofondo, cardinali si fanno guerre mediatico-legali a vantaggio di telecamera.

Oportet ut scandala eveniant. Conviene che gli scandali esplodano, anche e soprattutto nella Chiesa, se e quando la loro deflagrazione serve a mortificare gli orgogli clericali di ogni risma e a mostrare ancora una volta la non auto-sufficienza della comunità ecclesiale, la sua dipendenza permanente dall’operare della grazia. Fuori da questo orizzonte, anche l’idea della Chiesa che “purifica” se stessa e sradica il male con strumenti umani e ecclesiastici, protocolli e operazioni di ingegneria istituzionale, che non sono i miracoli di Cristo, può diventare espressione di una Hybris, di una tracotanza empia ben più nefasta e alla lunga devastante di ogni miseria umana.

Visto lo stato delle cose, proprio il “fallimento” di progetti e disegni ecclesiastici attribuiti a Papa Francesco può diventare un dono di grande momento, in questo momento, per la Chiesa.

Quel fallimento, rinfacciato o enfatizzato dalle bande che cercano di occupare posizioni di forza in vista del Conclave, dice al mondo che la Chiesa non la salva un pover’uomo.

Il “fallimento” papale spazza via ologrammi e epopee di mondanità spirituale costruiti intorno al suo simulacro, comprese quelle del “Papa uno di noi”. Ma soprattutto – e questo conta di più – attesta di nuovo che lo stato ultimo della Chiesa, la fecondità e la efficacia della sua azione non dipende da questo o da quel Papa. Non dipende da un Papa che uomini e donne del tempo presente possano incontrare l’umanità di Cristo, e esserne resi felici.

Le circostanze storiche hanno in tanti modi reso evidente nel corso del tempo l’insufficienza, l’inermità e l’impotenza dei vescovi di Roma. Seguendo le orme di San Pietro, i suoi successori hanno imparato anche dai loro peccati perdonati o dalle loro intenzioni mortificate a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del Signore. Riconoscendo che anche la Chiesa è sempre bisognosa di guarigione, bisognosa dei Suoi miracoli.

Da San Pietro – che rinnegò Gesù – fino ad oggi, a mettere in pericolo la Chiesa non sono i limiti umani dei Papi, ma le cordate clericali che trattano l’organismo ecclesiale alla stregua di una società per azioni. Quelle che anche adesso sembrano prepararsi all’ “aria di Conclave” come al gioco di ruolo che più li appassiona. Tagliano il capello, disquisiscono compiaciuti, sponsorizzano formule magiche e disposizioni tattiche “vincenti”, senza che affiori in loro la minima, autentica vertigine davanti al mistero della Chiesa e della sua missione nel mondo.