Joseph Ratzinger ha compiuto 95 anni. È nato il 16 aprile 1027 nel paesino bavarese di Marktl sull’Inn, in un mondo diverso per mille cose da quello di oggi. E anche la lunga durata della sua esistenza, con i quasi otto anni di pontificato superati dagli oltre nove anni di “pontificato emerito”, inscrive tutta la sua vita nel mistero palpitante della Chiesa degli ultimi tempi.

Con quel mistero, Joseph Ratzinger ha avuto familiarità fin dall’inizio. Fin da quando, a poco più di vent’anni, l’invidia clericale di vecchi professori neo-scolastici lo chiamava con disprezzo «il teenager teologico». Grazie al suo sensus Ecclesiae, a meno di 25 anni, nella breve esperienza pastorale in una parrocchia del centro di Monaco di Baviera aveva percepito in tanti ragazzi che frequentavano la chiesa una estraneità sostanziale alla fede e al cristianesimo, dissimulata in riti e pratiche imposti dalla convenzione sociale. Già in quell’esperienza – come poi spiegò in un suo scritto sui «nuovi pagani» – aveva intuito che il volto del nuovo paganesimo non era «l’ateismo orientale», e nemmeno l’esito dei processi di scristianizzazione iniziati dal Rinascimento. Quello che lui aveva visto già allora era un «paganesimo intra-ecclesiale», attecchito innanzitutto nelle civilizzazioni dove l’appartenenza ecclesiale si era configurata come «una necessità di fatto politico-culturale», come «un dato a priori della nostra esistenza specificamente occidentale». Un “a priori” di ordine politico-culturale che non aveva niente a che fare con l’attesa e la speranza di salvezza eterna.

Con la stessa intimità al mistero della Chiesa, Joseph Ratzinger ha condiviso la grande, luminosa e liberante intuizione del Concilio Vaticano II: la scoperta che la strada più feconda per il presente e il futuro del cristianesimo era il ritorno alle sorgenti (ressourcement), per riassaporare tutta l’ampiezza della Tradizione, a partire dai Padri della Chiesa, e liberarsi così anche dall’equivoco che aveva spacciato come “Tradizione” le forme storiche codificate degli apparati ecclesiastici degli ultimi secoli. Grazie al “ritorno alle sorgenti” – questa era la scommessa del Concilio – la Chiesa avrebbe saputo abbracciare anche le istanze più feconde del moderno, Senza rinchiudersi nella sterile difesa degli antichi “regimi di cristianità”, e liberandosi anche dalla pretesa di colonizzare cristianamente il moderno con progetti di nuove egemonie culturali.

Già in quegli anni – come emerge dai suoi resoconti conciliari – il futuro Pontefice aveva ripetuto che nella Chiesa ogni autentico rinnovamento «è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplice, del rivolgersi a quella vera semplicità di tutto ciò che vive». Mentre partecipava con entusiasmo e dedizione instancabile all’avventura conciliare, riconosceva che «Nessun Concilio, per quanto grande sia il suo impeto, può di per sé portare al rinnovamento della cristianità», e che «l’unica conclusione appropriata è riposta nella pratica individuale della fede, della speranza e della carità».

La familiarità di Joseph Ratzinger con il mistero della Chiesa ha nutrito anche il suo sguardo sul cammino del cristianesimo nel mondo negli ultimi decenni. Uno sguardo espresso tante volte in parole di spiazzante e confortante intelligenza spirituale, pronte a non censurare le angosce solitamente rimosse dal conformismo degli apparati clericali.

Già nei suoi scritti da professore e teologo – rievocati anche da Papa Francesco nella sua recente conversazione coi gesuiti di Malta, pubblicata su La Civiltà Cattolica – Ratzinger aveva preconizzato il tempo nel quale la Chiesa avrebbe perso «gran parte dei privilegi sociali», non sarebbe più stata «forza sociale dominante» e non sarebbe stata più in grado «di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità». Ma aveva prefigurato tale passaggio anche come un tempo di purificazione, che l’avrebbe resa povera, spirituale e semplificata. Facilitata nel riconoscere la propria totale dipendenza dalla grazia di Cristo. Fino a farla diventare «la Chiesa degli indigenti», liberata dalla «ristrettezza di vedute settaria» e dalla «caparbietà pomposa», per mostrarsi in maniera più trasparente come «la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte».

Il realismo di Joseph Ratzinger non ha mai avuto come preoccupazione ultima la tutela della rilevanza della Chiesa in termini di egemonia culturale e efficienza di apparati e strategie. All’origine delle sue suggestioni più profetiche c’è sempre stato in ultima istanza il prendere atto che trionfalismi e protagonismi ecclesiastici di nuovo conio coprivano spesso l’avanzare del deserto. Occultavano il fatto che «in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento» (discorso alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 27 gennaio 2012). Una perdita di memoria cristiana inedita. Con la gran parte degli abitanti dei Paesi di antica tradizione cristiana che guardano al cristianesimo come a «un passato che non li riguarda», privo del minimo contatto con gli interessi vitali reali che muovono la propria esistenza. «Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più?» Così si apriva una delle tre celebri «meditazioni» ratzingeriane sul Sabato Santo, stese dal futuro Pontefice già molti anni prima della sua elezione papale.

Parole e riflessi carichi di un simile sgomento vengono di solito irrisi con supponenza da chi vuole occultare e neutralizzare la loro portata eversiva rispetto agli auto-compiacimenti clericali di ogni risma e ogni tempo (compresi quelli, stucchevoli fino alla nausea, che affliggono la corrente stagione ecclesiale). Lo stesso capitò all’inquietudine vertiginosa espressa in alcuni interventi da Paolo VI negli ultimi anni di Pontificato. Anche lui vide – e lo disse a tutta la Chiesa – che la fede nel mondo non viene meno per persecuzione, e neanche per colpa del relativismo, del nichilismo e dei tempi cattivi. Ma in ogni cuore umano – e quindi anche nel cuore di interi popoli – la fede può spegnersi, come accade a una fiammella che non trova più alimento, proprio perché non è un optional di serie, un possesso acquisito “a priori” e per sempre.

Sugli ultimi anni di Ratzinger, vissuti da Papa emerito, potrebbe essersi affacciata anche l’ombra di un nuovo tormento: il sentore di aver complicato le cose della Chiesa con la sua rinuncia all’incarico papale. Il quasi inconscio presentimento di essersi ritirato dalla battaglia nel momento sbagliato, contribuendo senza volerlo alla confusione e al senso di cedimento che si avvertono in molti ambiti ecclesiali.

Tale sentore, se mai c’è stato, è stato fomentato dalle cordate clericali di opposta fazione impegnate in questi tempi a giocare senza ritegno anche con la delicata condizione istituzionale che vedeva convivere nello stesso tempo due Successori di Pietro. La banda epigonica dei vecchi “nemici” ha continuato a bullizzarlo con strafottenza fin sulla soglia dei 95 anni, usando anche i dossier retrodatati sulla pedofilia clericale germanica per consumare squallide rese dei conti. E ancor più sanguinari nei suoi confronti si sono mostrati i falsi amici e seguaci che intorno a lui hanno costruito l’impostura ideologica del Papa occulto, del Papa velato. Quelli che per anni hanno voluto farne quasi il titolare di un Papato ombra. Proprio lui, che tanto ama ciò che tiene unita la Chiesa, ridotto a feticcio di giochi che lacerano la Chiesa nel suo segno di unità visibile.

Ora che Joseph Ratzinger ha superato la soglia dei 95 anni, appare ancora più evidente che la sua stessa rinuncia all’ufficio di Romano Pontefice ha suggerito qualcosa di importante in merito al mistero della Chiesa. Con quella sua scelta, Ratzinger ha ribadito che nessun Papa può credere di essere lui a “salvare” la Chiesa; che la sua figura è secondaria, destinata a venir meno. Nel suo ultimo discorso pubblico da Papa, Benedetto XVI ha confessato di aver sempre percepito che sulla barca della Chiesa «c’è il Signore», anche quando sembra dormire, e che «la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è Sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto». Con la stessa serenità, il Vescovo emerito di Roma potrà considerare anche le ultime pene spirituali che possono averlo raggiunto negli ultimi, fragili anni di vecchiaia. Anche quelle eventuali amarezze fanno parte della sua familiarità col mistero della Chiesa. Nelle sofferenze apostoliche di ogni persona amata da Cristo risuona il grido del Figlio crocifisso, mentre si abbandona all’abbraccio del Padre, perché «il Figlio, da sé, non può far nulla» (Vangelo di Giovanni 5, 19). La familiarità col mistero può arrivare a questa ferita, a questo dolore, a questo abbandono. Sperimentando un conforto e una dimenticanza di sé che non vagheggia vecchiaie tranquille, al riparo dalle tempeste.

Quindi, conviene che qualcuno glielo ripeta, anche in questi giorni pasquali, parafrasando il vecchio detto attribuito a Mao: quando Ratzinger indica la luna, lo stolto (iscritto di solito a qualche banda clericale) guarda a Ratzinger, alle sue indubbie doti intellettuali o ai suoi limiti di metodo e agli errori compiuti lungo il cammino. Il popolo di Dio, invece, guarda la luna. Per questo vuole bene a Papa Ratzinger. E può ripetere con commozione al fragile pastore pieno di acciacchi, che si prepara da tempo all’ultimo viaggio: ad multos annos, Benedetto XVI.