Nei suoi ottant’anni di vita, lo psicanalista Giacomo B. Contri, spentosi nel pomeriggio di venerdì 21 gennaio, è diventato discepolo, amico, maestro e compagno di strada indimenticabile per una moltitudine di persone. Compresi Jacques Lacan, Michel de Certeau e don Luigi Giussani.

Negli anni ruggenti della rivista 30Giorni, che ho avuto il dono di vivere, fu anche per noi un specie di maestro esploratore da seguire in avventurosi fuoripista, dietro la sua libera e liberante scoperta del “pensiero di Cristo”. Le sue folgoranti intuizioni lasciavano sempre lietamente spiazzati rispetto a moralismi e sentimentalismi di ogni risma che assediavano a ogni passo, e a cui era ed è quasi fatale assuefarsi. Nelle sue frasi fulminate avvertivamo un riverbero singolare e vitale del fatto cristiano come dono inimmaginabile e gratuito, dilectio che può avvincere e vincere le cupidigie del mondo non perché le rimuove o le combatte, ma solo se e quando le sovrasta in godimento (lui, Contri, tirava in ballo il “principio di piacere”…).

Il corpus immenso di scritti e interventi che raccontano solo in parte l’avventura umana, intellettuale e cristiana di Giacomo B. Contri si può consultare online su www.operaomniagiacomocontri.it . A chi scrive vengono in mente anche ricordi più squinternati, e chissà cosa ne direbbe la sua psico-analisi. (Come quella volta che lui era sceso a Roma dalla sua amata Milano, e dopo mezza giornata insieme mi chiese di riaccompagnarlo in auto fino a piazza Farnese, ma lungo la strada si addormentò, e io aspettai fermo in macchina almeno una mezz’ora, che lui si risvegliasse).

In memoria grata di Giacomo B. Contri, si ripropone su SenzaMandato una intervista pubblicata nel febbraio 1993, che prendeva le mosse da Karl Marx, da lui indicato anche in anni recenti come un autore fondamentale per la sua comprensione delle cose («e da giovani» – aggiungeva allora «eravamo pure tutti innamorati di Jenny, la moglie di Karl…»).

Sono passati quasi 30 anni. Eppure, tra le righe di quelle sue risposte, si possono cogliere cenni di impressionante attualità.

 

KARL MARX, LA GRAZIA E LE DUE CITTÁ

Intervista con Giacomo B. Contri di Gianni Valente

Da 30Giorni, n.2, febbraio 1993, pp. 56-57

«I cattolici hanno avuto due torti con Marx: di dargli torto spesso per cattive ragioni, di dargli ragione sempre per cattive ragioni». Giacomo B. Contri, psicoanalista allievo del mitico Lacan, pare saperla lunga. Ha frequentato per parecchio tempo l’accigliato padre del comunismo. «C’è stato un tempo in cui non poteva esserci nessuno più marxista di noi. Non l’ho dimenticato. Recentemente, dopo l’89, sono tornato al primo libro del Capitale, nella versione commentata da Louis Althusser; che spettacolo!». E allora chiediamolo anche a lui: possono tornarci utili a capire la realtà di questi anni le intuizioni del filosofo di Treviri?

GIACOMO B. CONTRI: Certo, a noi interessa la politica. Nel senso che le città, le polis, sono due. Siamo dei realisti, e la realtà sono due città. Le due città di sant’Agostino. Detto questo, molto di Marx diventa interessante. 

Qualche esempio?

CONTRI: Penso alla sua analisi delle classi. Al criterio di classe dominante. Sarebbe utile applicarlo al grande passaggio di mano tra classi dominanti che sta avvenendo oggi in Italia. Capire quali sono i legami tra gli interessi e gli obiettivi del nuovo ceto emergente, l’uso della propaganda, la manipolazione dell’opinione, gli avvenimenti centellinati a scandire tutto questo scrollo. Poi, si sia d’accordo o no con l’uso che fa della sua analisi delle classi, e cioè la lotta di classe, tale analisi significa che esiste ancora un popolo. C’è il mantenimento dell’idea di popolo. Ma è l’idea di partenza che in Marx mi sembra geniale, è una pura verità.

A che si riferisce?

CONTRI: Il pensiero di Marx riguarda il lavoro, e il suo rapporto con la ricchezza, quella che lui chiama «la ricchezza delle nazioni». Ebbene, è chiarissimo per Marx che la ricchezza non deriva dal lavoro. Dal lavoro deriva ciò che è sufficiente a vivere: la sussistenza. Il lavoro non produce ricchezza. Ha per compenso al massimo un equivalente. Che magari permette una vita un po’ al di sopra della sopravvivenza. Cosa vuol dire la ricchezza? É ciò che definitivamente mi fa star bene, qualcosa di eccedente, un’eccedenza. Cristianamente diremmo la grazia. La grazia è un’eccedenza. Ora, non è il lavoro, l’opera delle proprie mani che produce la ricchezza, cioè la grazia. Si può domandare la grazia a Dio, ma la grazia non è il frutto del lavoro, cioè della domanda a Dio. Questa è la verità cortissima da cui parte anche Marx. Il lavoro dà al massimo un compenso equivalente. Ma il compenso dato – dice lui – è minore dell’equivalente. C’è il plusvalore che viene sottratto. E solo questa sottrazione permette di accumulare la ricchezza. Per costruire la «ricchezza delle nazioni» alcuni uomini non fanno altro che approfittare di questa semplice verità, che il lavoro non è la fonte della ricchezza, sottraendo una parte del compenso equivalente al lavoro altrui. Ma il punto di partenza, ripeto, è brevissimo. Il lavoro non produce ricchezza. Il capitalista si arricchisce e arricchisce le nazioni solo attraverso lo sfruttamento del lavoro. Un’analisi che resta sicuramente corretta per tutto l’Ottocento e oltre…

E adesso cos’è che non va più?

CONTRI: Il nostro capitalismo non è più quello di Marx. É più sanguinario. Nel senso che intendeva Del Noce, quando diceva: «Sono sanguinari». Nell’analisi di Marx il capitalismo ha bisogno del proletariato. Per produrre ricchezza, perché continui a lavorare e a produrre forza lavoro, è necessario che il lavoratore viva e prolifichi. Nel salario c’è una quota parte che è un furto, ma il resto deve essere sufficiente a mantenere in vita lui, la moglie e i bambini. La sopravvivenza fisica è assicurata, il capitale ne ha bisogno. Oggi invece si passa dallo sfruttamento delle masse all’ipotesi tranquilla del loro sterminio. Con un’indifferenza che si coglie leggendo le prime pagine dei giornali. La cosa è ovvia rispetto al terzo, quarto e quinto mondo. Se crepassero tutti, toglierebbero il fastidio. Ma anche in Occidente si è passati da un capitale che sfrutta il lavoro a un capitale che cresce infischiandosene del lavoro. Ai tempi di Marx c’era la corte dei miracoli, ma la disoccupazione era inammissibile. Il nostro è un mondo di disoccupati. Attuali o potenziali. Una civiltà della disoccupazione. E i disoccupati sono gli uomini validi, non solo i poveri cristi incapaci di lavorare. Uno degli errori dei partiti comunisti è stato il non cogliere che il capitalismo di oggi è peggiore e non migliore di quello conosciuto da Marx.

Una carenza di prospettiva. É l’unico punto debole del marxismo?

CONTRI: L’errore è un altro. Aveva il radicale vizio di condividere lo stesso punto di vista del nemico: che non esistono due mondi, due regni, due città. Esiste solo una città. La costante nei secoli tra il precapitalismo calvinista e puritano e il capitalismo inglese, poi francese e americano, è il dogma dell’unicità della società, della città. Un dogma che Marx assimila. Non vi è in lui alcun barlume che non se ne esce riformando il mondo come uno. Il comunismo non è stato utopico, ma semplicemente topico. C’è un solo topos, una sola città, siamo tutti nella stessa barca. Nell’unica barca ci sono solo varianti. Al massimo, può capitare che parti marxista e finisci direttore del Corriere della sera. E invece non è vero. Seguendo Agostino – che dovrebbe diventare uno spunto di lavoro politico quotidiano, come un tempo si diceva: “Vado in sezione” – ci sono due barche. Il topos della vita reale delle persone sono due città, non una. Fatte con gli stessi materiali, ma due. E la grazia è la carta d’identità, in senso giuridico, di chi appartiene all’altra città. Per cui anche se ti fanno fuori, è una cosa diversa. E allora i graziati, ossia gli appartenenti all’altra città, diventano i nemici di tutti. Anche il marxismo è stato anticattolico, mica per l’ateismo, ma perché il cristianesimo rappresentava la vera alternativa politica.

Adesso sono spesso i preti e gli ecclesiastici a sostenere l’unanimismo per cui stiamo tutti nella stessa barca…

CONTRI: Quando un prete dal pulpito dice: “Siamo tutti fratelli”, sembra una bella frase, invece c’è un rinnegamento di Gesù dalle conseguenze politiche terribili. Vuol dire che stiamo tutti nella stessa barca. E la grazia è spacciata per illuminazione interiore, dei coriandoli, un raggio che scende sull’unico luogo. Per cui ci sono gli illuminati e quelli che non lo sono. Una concezione parapsicologica. Invece la grazia è un pass, un passaporto di appartenenza a un’altra città carnale.